Comunicati stampa
17 dicembre 2025
Accesso a Medicina: il flop annunciato di una riforma superflua. Oltre 90mila medici non lavorano nel SSN: il problema non è la carenza, ma la fuga dal pubblico e le specialità non attrattive
I risultati dei test di ammissione, le criticità segnalate da studenti e Università e il successivo scontro politico confermano quanto già sostenuto dalla Fondazione GIMBE in sedi istituzionali: la riforma dell’accesso a Medicina era superflua e le modalità adottate non premiano il merito. Al di là del flop, occorre avviare una profonda riflessione politica sulla scelta di formare più medici, senza attuare misure concrete per arginarne la fuga dalla sanità pubblica e restituire attrattività e prestigio alla carriera nel Servizio Sanitario Nazionale (SSN), in particolare per i medici di famiglia e le specialità disertate. Altrimenti continueremo ad investire denaro pubblico per laureare medici da destinare al libero mercato o all’estero.
«Dopo la caporetto dei test di ammissione – spiega Cartabellotta – la Fondazione GIMBE, al fine di informare il dibattito pubblico e le decisioni politiche, ha rivalutato numeri e dinamiche della professione medica, evidenziando gli elementi di propaganda e le criticità di una riforma che oggi richiede una vera e propria “sanatoria di Stato” per non escludere migliaia di studenti che ambiscono a diventare medici».
I DATI SMENTISCONO LA NARRAZIONE DELLA CARENZA DI MEDICI IN ITALIA
Confronti internazionali. Secondo i dati OCSE, aggiornati al 5 dicembre 2025 e riferiti a tutti i medici attivi in Italia dalla laurea al pensionamento, nel 2023 si contavano 315.720 medici, pari a 5,4 ogni 1.000 abitanti. Un valore superiore sia alla media OCSE (3,9) sia alla media dei paesi europei (4,1), che colloca l’Italia in 2a posizione tra i 31 paesi che forniscono il dato (figura 1). I laureati in Medicina e Chirurgia nel 2023 sono stati 16,6 per 100.000 abitanti, valore superiore alla media OCSE (14,3) e poco al di sopra della media dei paesi europei (16,3), che posiziona il nostro Paese al 9° posto tra i 31 paesi che forniscono il dato (figura 2). «Questi dati – spiega il Presidente – confermano che i presupposti della riforma non si basavano su una carenza di medici in termini assoluti, né su un numero insufficiente di laureati in Medicina e Chirurgia».


Dati nazionali nel 2023 (ultimo anno disponibile).
- Medici dipendenti pubblici. Secondo il Conto Annuale della Ragioneria Generale dello Stato (CA-RGS), i medici dipendenti del SSN erano 109.024 (1,85 medici per 1.000 abitanti).
- Medici convenzionati. Secondo i dati della Struttura Interregionale Sanitari Convenzionati (SISAC), i medici convenzionati erano 57.880, di cui 37.260 medici di medicina generale (MMG), 14.136 pediatri di libera scelta (PLS) e 6.484 specialisti ambulatoriali convenzionati.
- Medici in formazione specialistica. Secondo i dati forniti dall’Associazione Liberi Specializzandi i medici iscritti alle scuole di specializzazione erano 50.677.
- Medici iscritti al Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale. Secondo le stime della FIMMG erano circa 6.000.
Dal confronto con i dati OCSE emerge che quasi 93 mila medici censiti in Italia, pari al 29,4% del totale, non lavorano nel SSN, come dipendenti o convenzionati, né risultano inseriti in percorsi formativi post-laurea (tabella 1). «Peraltro, considerato che i dati sono riferiti al 2023 – commenta Cartabellotta – e che pensionamenti anticipati e licenziamenti volontari sono in aumento, oggi il divario potrebbe essere ancora maggiore».

Carenze di medici nel SSN. «Il problema italiano – spiega Cartabellotta – non è rappresentato dalla mancanza di medici in termini assoluti, ma dal loro progressivo abbandono del SSN e da carenze selettive, perché sempre meno giovani scelgono la medicina generale e alcune specialità cruciali, ma poco attrattive». Per i medici di famiglia, sulla base dei dati SISAC, al 1° gennaio 2024 la Fondazione GIMBE stima una carenza di 5.575 MMG. Per i medici specialisti, la carenza può essere stimata solo analizzando i tassi di accettazione dei contratti di formazione specialistica. Nel concorso 2025-2026, a fronte di 14.493 contratti, ne sono stati assegnati 12.248 (85%), ma con tassi di assegnazione bassi o molto bassi in aree cruciali per il funzionamento del SSN: medicina d’emergenza-urgenza, chirurgia generale, medicina di comunità e delle cure primarie, radioterapia e tutte le specialità di laboratorio (tabella 2). «La soluzione per fronteggiare queste carenze selettive – chiosa Cartabellotta – non può certo essere quella di aumentare gli iscritti alle Facoltà di Medicina. Servono invece azioni mirate e interventi straordinari per restituire attrattività alla medicina generale e alle specialità disertate dai giovani medici».

PENSIONAMENTI FUTURI GIÀ COMPENSATI DALL’OFFERTA FORMATIVA


- Posti programmati. Negli ultimi 10 anni accademici sono stati programmati n. 152.159 posti nei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia, con un trend in costante aumento. In particolare, negli ultimi 3 anni i posti a bando sono aumentati di oltre il 51% (da 15.876 a 24.026) e con la riforma Bernini nel 2025-2026 di ben 3.159 unità rispetto all’anno precedente (+ 15,1%) (figura 3).
- Laureati. Dal 2015 al 2024 in Italia si sono laureati in Medicina e Chirurgia n. 95.533 studenti, con un trend in crescita: dai 7.396 del 2015 ai 9.497 del 2024 (figura 4). La media annua di laureati è aumentata da 8.961 del periodo 2015-2019 a 10.145 del 2020-2024.
- Pensionamenti attesi. Secondo Agenas, tra il 2026 e il 2038 andranno in pensione oltre 39 mila medici dipendenti e tra il 2026 e il 2035 più di 20 mila medici convenzionati, pari a una riduzione media di circa 5.000 unità l’anno. Un numero di pensionamenti che, già prima della riforma Bernini, risultava ampiamente compensato dall’offerta formativa esistente. «I dati – spiega Cartabellotta – mostrano chiaramente che la cosiddetta “gobba pensionistica”, dopo aver raggiunto il picco nel triennio 2023-2025, era destinata a ridursi progressivamente negli anni successivi. Per questo motivo, l’aumento massiccio dei posti a Medicina non risponde a un reale fabbisogno strutturale». A ciò si aggiunge un elemento temporale cruciale: «I nuovi medici formati con l’attuale riforma entreranno nel mercato del lavoro non prima di 9-11 anni. Questo significa che il forte incremento degli accessi rischia di produrre, nel medio-lungo periodo, un numero di laureati superiore alle reali capacità di assorbimento del SSN, aprendo una nuova stagione di pletora medica, già sperimentata in passato e associata a scarsa valorizzazione professionale e lavoro sottopagato».
«La riforma Bernini – spiega Cartabellotta – è stata lanciata con slogan populisti: “abolizione del numero chiuso”, “stop al test d’ingresso”, “offerta formativa d’eccellenza”. E ha puntato su una selezione basata su esami di merito da sostenere dopo un semestre filtro di formazione su tre materie: biologia, chimica e fisica. Ma nei fatti il numero “chiuso” non è mai stato abolito e sono state concentrate almeno 450 ore di lezioni e studio in soli 60 giorni, con didattica prevalentemente a distanza e scarsa interazione con i docenti. Il tutto culminato in un triplice esame universitario svolto in un contesto di concorrenza tossica, con tre prove consecutive (87 secondi a domanda), intervallate da una pausa di 15 minuti».
L’ipotesi oggi sul tavolo è l’adozione di una graduatoria nazionale che includa tutti i candidati fino all’esaurimento dei posti disponibili, demandando ai singoli atenei il recupero dei debiti formativi. «Una sanatoria – commenta il Presidente – che certifica il fallimento della riforma Bernini: dall’ambiziosa pretesa di una selezione basata sul merito all’inevitabile compromesso del “6 politico”. Con tempi talmente compressi da costringere a chiudere un occhio, se non entrambi, sul reale livello di preparazione degli studenti».
Al di là delle soluzioni tampone, la riforma resta un cantiere aperto, alla ricerca di un equilibrio tra programmazione del fabbisogno di medici e una selezione meritocratica, equa e trasparente. «Per realizzare un sistema di accesso coerente con i bisogni del SSN – aggiunge Cartabellotta – la Fondazione GIMBE propone alcune azioni correttive, indispensabili per evitare che i costi economici e sociali della riforma superino i benefici». Tra le priorità: garantire supporto economico e logistico agli studenti del semestre filtro; rivedere tempi e modalità delle prove, affiancando ai quiz strumenti in grado di valutare le attitudini alla professione medica; rafforzare sicurezza e uniformità delle selezioni. Ma soprattutto, è indispensabile un coinvolgimento stabile di tutti gli stakeholder, sotto la regia congiunta di MUR e Ministero della Salute, evitando approcci unilaterali e soluzioni “muro contro muro”.
«La riforma Bernini – conclude Cartabellotta – ha alimentato l’illusione che laureare più medici fosse la panacea per risolvere i problemi del SSN. I dati raccontano invece una realtà ben diversa: in Italia ci sono tanti medici, che però fuggono dalla sanità pubblica, e la medicina generale e varie specialità cruciali per il sistema sono disertate perché poco attrattive. È evidente che senza interventi mirati per risolvere queste criticità la riforma rischia di utilizzare risorse pubbliche per formare una nuova pletora medica destinata al libero mercato, in una sanità dove il pubblico arretra e il privato avanza. E visto che gli obiettivi dichiarati, migliorare la qualità della formazione e valorizzare capacità e merito, sono clamorosamente falliti, è indispensabile mettere da parte polemiche politiche e procedere in maniera costruttiva con la “riforma della riforma”».
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26 novembre 2025
Sanità: il pubblico arretra, i privati occupano gli spazi vuoti. Spesa delle famiglie oltre i € 41 miliardi e dal 2022 al 2024 +1,7 milioni di persone rinunciano a prestazioni sanitarie. Il privato convenzionato domina RSA e riabilitazione, ma mostra segni di crisi. Boom del privato puro: in 7 anni +137% di spesa out-of-pocket. GIMBE: serve un rifinanziamento stabile per non scivolare in una sanità a doppio binario
«Non serve cercare un piano occulto di smantellamento del Servizio Sanitario Nazionale (SSN): basta leggere i numeri per capire che la privatizzazione della sanità pubblica è già una triste realtà». Con queste parole Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE, apre la sua relazione al 20° Forum Risk Management di Arezzo, presentando un’analisi indipendente sull’ecosistema dei soggetti privati in sanità e sulla privatizzazione strisciante del SSN. L’analisi documenta che il progressivo indebolimento della sanità pubblica lascia sempre più spazio all’espansione silenziosa di una moltitudine di attori privati, spesso identificati erroneamente con le sole strutture private accreditate.
«Il termine “privato” in sanità – spiega Cartabellotta – viene utilizzato per indicare tutti gli attori coinvolti nel finanziamento, rimborso, programmazione ed erogazione di servizi e prestazioni sanitarie e socio-sanitarie. Ma oggi, sotto un’unica etichetta, convivono realtà molto differenti, con attitudini altrettanto diverse nel mantenere l’equilibrio tra generazione di profitti e tutela della salute». La Fondazione GIMBE indica quattro macro-categorie di soggetti privati: erogatori che forniscono servizi e prestazioni sanitarie e socio-sanitarie; investitori che immettono capitali con finalità di sviluppo del settore e di produzione di utili; terzi paganti (fondi sanitari, assicurazioni, etc.) che svolgono la funzione di pagatore intermedio tra erogatori e cittadini; realtà che stipulano partenariati pubblico-privato (PPP) con Aziende Sanitarie, Regioni e altri enti. Ciascun soggetto privato può avere natura giuridica profit o non-profit: questi ultimi, se non rappresentano una minaccia per il SSN, nella percezione pubblica finiscono per essere considerati alla stregua di attori privati con elevata propensione ai profitti (tabella 1).

La privatizzazione della sanità può essere misurata attraverso due macro-fenomeni: l’aumento della spesa sanitaria out-of-pocket (privatizzazione della spesa) e la crescita del numero e delle tipologie di soggetti privati che erogano servizi e prestazioni sanitarie (privatizzazione della produzione). «Al di là di schemi predefiniti e della molteplicità di attori privati – spiega Cartabellotta – le loro relazioni non sempre trasparenti e le dinamiche più orientate al profitto che a tutelare la salute delle persone stanno concretizzando, giorno dopo giorno, una silenziosa privatizzazione del SSN, il cui progressivo indebolimento fornisce un terreno sempre più fertile».
PRIVATIZZAZIONE DELLA SPESA. Nel 2024 la spesa sanitaria a carico dei cittadini (out-of-pocket) ammonta a € 41,3 miliardi, pari al 22,3% della spesa sanitaria totale: percentuale che da 12 anni supera in maniera costante il limite del 15% raccomandato dall’OMS, soglia oltre la quale sono a rischio uguaglianza e accessibilità alle cure. In Italia la spesa out-of-pocket in valore assoluto è cresciuta da € 32,4 miliardi del 2012 a € 41,3 miliardi del 2024, mantenendosi sempre su livelli compresi tra il 21,5% e il 24,1% della spesa totale (figura 1). «Con quasi un euro su quattro di spesa sanitaria sborsato dalle famiglie – osserva il Presidente – oggi siamo sostanzialmente di fronte a un servizio sanitario “misto”, senza che nessun Governo lo abbia mai esplicitamente previsto o tantomeno dichiarato. Peraltro, la spesa out-of pocket non è più un indicatore affidabile delle mancate tutele pubbliche, perché viene sempre più arginata dall’impoverimento delle famiglie: le rinunce alle prestazioni sanitarie sono passate da 4,1 milioni nel 2022 a 5,8 milioni nel 2024». In altre parole, la spesa privata non può crescere più di tanto perché nel 2024 secondo l’ISTAT 5,7 milioni di persone vivevano sotto la soglia di povertà assoluta e 8,7 milioni sotto la soglia di povertà relativa.

Dal Sistema Tessera Sanitaria è possibile identificare chi “incassa” la spesa a carico dei cittadini. Nel 2023, anno più recente a disposizione, i € 43 miliardi di spesa sanitaria privata sono così suddivisi: € 12,1 miliardi alle farmacie, € 10,6 miliardi a professionisti sanitari (di cui € 5,8 miliardi odontoiatri e € 2,6 miliardi ai medici), € 7,6 miliardi alle strutture private accreditate e € 7,2 miliardi al privato “puro”, ovvero alle strutture non accreditate e € 2,2 miliardi alle strutture pubbliche per libera professione e altro (tabella 2). «Questi numeri – osserva Cartabellotta – fotografano con chiarezza che la privatizzazione della spesa sta determinando una progressiva uscita dei cittadini dal perimetro delle tutele pubbliche, acquistando direttamente sul mercato le prestazioni necessarie».

PRIVATIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE. La privatizzazione della produzione coinvolge le diverse categorie di erogatori che contribuiscono all’offerta di servizi e prestazioni sanitarie. La componente più nota – che nell’immaginario collettivo identifica il “privato” per antonomasia – è rappresentata dalle strutture private convenzionate, che forniscono servizi e prestazioni sanitarie per conto del SSN e vengono rimborsate con risorse pubbliche.
Privato convenzionato. Secondo l’Annuario Statistico del Ministero della Salute, nel 2023 delle 29.386 strutture sanitarie censite, il 58% (n. 17.042) sono strutture private accreditate e il 42% (n. 12.344) strutture pubbliche (tabella 3). Il privato accreditato prevale ampiamente in varie tipologie di assistenza: residenziale (85,1%), riabilitativa (78,4%), semi-residenziale (72,8%) e, in misura minore, nella specialistica ambulatoriale (59,7%) (figura 2).


Tra il 2011 e il 2023 il numero di strutture ospedaliere e di assistenza specialistica ambulatoriale è diminuito sia nel pubblico sia nel privato accreditato, ma la contrazione è stata circa doppia nel pubblico (-14,1% e -5,6%) rispetto al privato (-7,6% e -2,5%). Il quadro si ribalta nelle altre aree. Nell’assistenza residenziale il pubblico arretra del 19,1% mentre il privato accreditato cresce del 41,3%; nell’assistenza semi-residenziale il pubblico segna -11,7% a fronte di un aumento del 35,8% del privato. Nell’assistenza riabilitativa crescono entrambi, ma con percentuali molto diverse (+5,3% pubblico vs +26,4% privato). Infine, nell’altra assistenza territoriale, pur con un aumento assoluto più rilevante nel pubblico, il privato accreditato registra una crescita percentuale quasi doppia (+35,3% vs +18,6%) (tabella 4, figura 3). «In altri termini nell’assistenza ospedaliera e specialistica ambulatoriale – commenta Cartabellotta – nel periodo 2011-2023 le strutture private accreditate si sono ridotte meno di quelle pubbliche e nelle altre tipologie assistenziali sono aumentate molto di più. Di conseguenza, oggi il privato accreditato finisce per essere la spina dorsale di interi settori».


Dal punto di vista finanziario, nel periodo 2012-2024 la spesa pubblica destinata al privato convenzionato è aumentata di € 5.333 milioni (+ 22,8%), passando da € 23.376 milioni nel 2012 a € 28.709 milioni nel 2024. Ma questa crescita in valore assoluto non si è tradotta in un maggiore peso percentuale sulla spesa sanitaria totale: l’incidenza è rimasta stabile fino al 2019 e, a partire dal 2020, ha iniziato a ridursi fino a toccare nel 2024 il minimo storico del 20,8% (figura 4). «Questo dato – commenta Cartabellotta – da un lato documenta la “sofferenza” del privato convenzionato, dall’altro dimostra scelte politiche poco lungimiranti. Infatti, diverse Regioni hanno favorito un’eccessiva espansione del privato accreditato senza disporre di risorse adeguate, visto che l’imponente definanziamento del SSN ha mantenuto ferme le tariffe di rimborso delle prestazioni. Ne sono derivati squilibri strutturali e tensioni ricorrenti su tetti di spesa e convenzioni, spesso ridimensionate nei volumi o, addirittura, interrotte». Nel 2023, ultimo dato disponibile della Ragioneria Generale dello Stato, la quota di spesa pubblica destinata al privato convenzionato supera la media nazionale (20,3%) in 6 Regioni, con valori compresi tra il 22% della Puglia e il 29,3% del Lazio. Nelle restanti 15 Regioni la percentuale oscilla dal 18,9% della Calabria al 7,7% della Valle d’Aosta (figura 5). Da rilevare che ad utilizzare più risorse per il privato convenzionato sono le Regioni in Piano di rientro, che registrano una quota del 23,9%, rispetto al 18,9% delle Regioni non in Piano di rientro e all’11,7% delle Autonomie speciali, Sicilia esclusa.


«La posizione di ciascuna Regione – spiega Cartabellotta – è influenzata sia dal numero e dalla tipologia di strutture private convenzionate, sia dalla spesa del 2011, anno di riferimento per calcolare gli incrementi percentuali delle risorse destinate ai privati convenzionati». A tal proposito va rilevato che le Leggi di Bilancio 2024 e 2025 hanno aumentato progressivamente il tetto di spesa per il privato convenzionato sino a raggiungere € 613 milioni dal 2026 in poi. A questi dovrebbero aggiungersi, secondo la Manovra 2026, ulteriori € 123 milioni l’anno, aumentando complessivamente il tetto di € 736 milioni annui a decorrere dal 2026 (tabella 5).

«Se da un lato è evidente – spiega Cartabellotta – che l’impatto del privato convenzionato sulla spesa sanitaria è stabile, dall’altro alcune modalità operative richiedono azioni incisive per essere risolte». In particolare è indispensabile allineare l’offerta di prestazioni ai reali bisogni di salute, scoraggiando comportamenti opportunistici conseguenti all’erogazione preferenziale di prestazioni più remunerative, in particolare se inappropriate; inoltre, bisogna mantenere un equilibrio tra tetti di spesa e numero di strutture accreditate; infine, è necessario rivedere le tariffe dei DRG e della specialistica ambulatoriale per preservare la qualità delle prestazioni.
Privato non convenzionato. Si tratta di strutture sanitarie, prevalentemente di diagnostica ambulatoriale, che erogano prestazioni esclusivamente in regime privato, senza alcun rimborso a carico della spesa pubblica. Negli ultimi anni è questo settore a registrare la crescita più marcata: tra il 2016 e il 2023 la spesa delle famiglie verso le strutture non convenzionate è aumentata del 137%, passando da € 3,05 miliardi a € 7,23 miliardi, con un incremento medio di circa € 600 milioni l’anno. Nello stesso periodo la spesa delle famiglie per il privato accreditato è cresciuta solo del 45%; di conseguenza il netto divario tra spesa delle famiglie verso il privato “puro” e verso il privato convenzionato si è praticamente azzerato passando da € 2,2 miliardi nel 2016 a soli € 390 milioni nel 2023 (figura 6). «Tra i fenomeni di privatizzazione – commenta Cartabellotta – la dinamica più preoccupante è dunque la velocità di crescita del privato “puro”. Infatti, mentre il dibattito pubblico continua ad avvitarsi sul ruolo del privato convenzionato, la cui incidenza sulla spesa sanitaria si è addirittura ridotta, i dati documentano la crescita esponenziale della spesa out-of-pocket verso il privato “puro”. Non trovando risposte tempestive nel pubblico né nel privato accreditato, chi può pagare cerca altrove ed esce definitivamente dal perimetro delle tutele pubbliche». Questo circuito, insieme all’intramoenia, rappresenta infatti l’unica scappatoia per il cittadino intrappolato nelle liste di attesa.

ALTRI ATTORI PRIVATI
Terzi paganti. L’intermediazione della spesa sanitaria privata è affidata ai cosiddetti “terzi paganti”, che popolano un ecosistema complesso composto da fondi sanitari, casse mutue, compagnie assicurative, imprese, enti del terzo settore e altre realtà non profit. Nel 2024, secondo i dati ISTAT-SHA, la spesa sostenuta da questi soggetti ha raggiunto € 6,36 miliardi, con un incremento di oltre € 2 miliardi nel triennio post-pandemia. «Va ribadito – spiega il Presidente – che ai fondi sanitari integrativi e al welfare aziendale viene riconosciuta una defiscalizzazione il cui impatto sulla finanza pubblica non è mai stato reso pubblico, né è calcolabile. Ma che rappresenta, indirettamente, uno strumento di privatizzazione occulta, visto che dirotta risorse pubbliche prevalentemente verso soggetti privati». Peraltro, dopo una fase di grande entusiasmo, le potenzialità della sanità integrativa risultano fortemente ridimensionate nell’attuale contesto di crisi del SSN. Con quasi 12 milioni di iscritti nel 2023, i fondi sanitari devono rimborsare un numero crescente di prestazioni che la sanità pubblica non riesce più a garantire. E questo squilibrio ne compromette la sostenibilità: più il SSN arretra, più aumenta la richiesta di rimborsi e l’intero sistema fatica a reggere. «La sanità integrativa – avverte Cartabellotta – può funzionare solo se integra un sistema pubblico forte. Se invece è chiamata a sostituirne le carenze, rischia di affondare insieme al SSN».
Investitori. Aumenta anche il numero di fondi di investimento, assicurazioni, gruppi bancari e società che, stimolati da trend di lungo periodo come l’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle cronicità, vedono nella sanità un settore ad alta redditività. Questi soggetti privati investono risorse nell’ambito dei propri piani aziendali come capitale di rischio, sia acquisendo quote societarie, sia stipulando partenariati pubblico-privato (PPP) con Aziende Sanitarie, Regioni e altri enti. «Se l’ingresso di capitali privati in sanità non può essere criminalizzato – avverte Cartabellotta –senza regole chiare e una governance rigorosa aumenta il rischio di sbilanciamento tra l’obiettivo pubblico della tutela della salute e quello imprenditoriale della legittima generazione di profitti». Particolarmente critica appare la relazione diretta tra investitore privato ed erogatore privato “puro”, che dà vita a quel “secondo binario”, totalmente sganciato dal SSN e destinato esclusivamente a chi può pagare direttamente o tramite coperture assicurative.
«In questo scenario – commenta il Presidente – caratterizzato dal progressivo arretramento della sanità pubblica e al contempo da una sregolata espansione di innumerevoli soggetti privati che perseguono anche obiettivi di profitto, parlare di “integrazione pubblico-privato” diventa anacronistico e oltraggioso nei confronti dell’art. 32 della Costituzione e dei princìpi fondanti del SSN. Se per il nostro Paese salvaguardare un SSN pubblico, equo e universalistico non è più una priorità, la politica abbia il coraggio di dirlo apertamente ai cittadini e gestisca con rigore i processi di privatizzazione, invece di lasciarli correre a briglia sciolta. In alternativa, si assuma pubblicamente la responsabilità di una “manutenzione ordinaria” di un modello che produce disuguaglianze, impoverisce le famiglie, penalizza il Sud e abbandona anziani e fragili. Perché è sotto gli occhi di tutti che la privatizzazione del SSN, non programmata e non annunciata e proporzionale all’indebolimento del SSN, sta trasformando i diritti in privilegi».
La Fondazione GIMBE ribadisce che è ancora possibile invertire la rotta. Come? Con un consistente e stabile rilancio del finanziamento pubblico, un “paniere” di Livelli Essenziali di Assistenza compatibile con l’entità delle risorse assegnate, un “secondo pilastro” che sia realmente integrativo rispetto al SSN ed eviti di dirottare fondi pubblici verso profitti privati e alimentare derive consumistiche, un rapporto pubblico-privato governato da regole pubbliche chiare sotto il segno di una reale integrazione e non della sterile competizione. «Solo intervenendo su questi assi strategici – conclude Cartabellotta – sarà possibile restituire al SSN il ruolo che la Costituzione gli assegna: garantire a tutte le persone il diritto alla tutela salute, indipendentemente dal reddito, dal CAP di residenza e dalle condizioni socio-culturali. Perché di fronte alla malattia siamo tutti uguali solo sulla Carta. Ma nella vita di tutti i giorni si moltiplicano inaccettabili diseguaglianze che un Paese civile non può accettare».
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3 novembre 2025
Manovra 2026, l’apparente crescita nasconde un definanziamento: dal 2023 al 2026 € 17,5 miliardi in meno alla Sanità. Le risorse aumentano solo nel 2026, poi è buio pesto. Oltre € 430 milioni delle misure sono finanziate da fondi della manovra precedente. In audizione presso le Commissioni bilancio riunite le proposte della Fondazione GIMBE sul rifinanziamento
La Fondazione GIMBE, nell’audizione odierna davanti alle Commissioni Bilancio riunite di Senato e Camera, ha documentato come l’apparente aumento delle risorse mascheri in realtà un definanziamento strutturale: tra il FSN effettivo e quello che si sarebbe ottenuto mantenendo il livello di finanziamento stabile al 6,3% del PIL nel 2022, si registra un gap cumulato di € 17,5 miliardi nel periodo 2023–2026. In altre parole, a fronte di miliardi sbandierati in valore assoluto, la sanità pubblica ha perso in quattro anni l’equivalente di una legge di bilancio, mentre per cittadini e Regioni crescono liste di attesa, spesa privata e diseguaglianze di accesso.
«Il Disegno di Legge sulla Manovra 2026 – ha dichiarato Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – è molto lontano dalle necessità della sanità pubblica: le risorse stanziate non bastano a risollevare un Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in grave affanno, sono insufficienti per coprire tutte le misure previste e mancano all’appello priorità cruciali per la tenuta della sanità pubblica». Queste le criticità principali emerse ieri dall’audizione della Fondazione GIMBE presso le Commissioni Bilancio riunite di Senato e Camera, nel corso della quale il Presidente ha invitato a non trasformare la sanità in terreno di scontro politico e ha avanzato proposte concrete per il rifinanziamento del Fondo Sanitario Nazionale (FSN).
FONDO SANITARIO NAZIONALE. «Innanzitutto – ha spiegato Cartabellotta – il titolo dell’art. 63 “Rifinanziamento del Fabbisogno Sanitario Nazionale Standard” è fuorviante perché non riporta gli importi del FSN rideterminati a seguito dello stanziamento di nuove risorse». Per questo motivo la Fondazione GIMBE ha proposto di rinominare l’art. 63 in “Fabbisogno Sanitario Nazionale Standard” e di indicare, per ciascun anno, l’importo rideterminato del FSN (tabella 1).

Il boom di risorse riguarda esclusivamente il 2026, quando il FSN crescerà di € 6,6 miliardi (+4,8%) rispetto al 2025, grazie a € 2,4 miliardi previsti dalla Manovra 2026 e, soprattutto, a € 4,2 miliardi già stanziati con le precedenti manovre, in gran parte già allocati per i rinnovi contrattuali del personale sanitario. Nel biennio successivo, invece, la crescita del FSN in termini assoluti è irrisoria: € 995 milioni (+0,7%) nel 2027 e € 867 milioni (+0,6%) nel 2028 (figura 1)

In rapporto al PIL, la quota destinata al FSN passa dal 6,04% del 2025 al 6,16% del 2026, per poi scendere nuovamente al 6,05% nel 2027 e precipitare al 5,93% nel 2028, delineando una tendenza in calo progressivo (figura 2).

«Se le cifre assolute riescono ad abbagliare l’opinione pubblica – ha commentato Cartabellotta – cambiando prospettiva emergono i tagli invisibili nel quadriennio 2023-2026». Infatti, se va riconosciuto al Governo Meloni di aver aumentato il FSN di ben € 19,6 miliardi, cifra mai assegnata da nessun Esecutivo in 4 anni, è altrettanto vero che tagliando la quota di FSN sul PIL dal 6,3% del 2022 a percentuali intorno al 6% negli anni successivi, la sanità ha complessivamente lasciato per strada ben € 17,5 miliardi. «Ovvero – ha chiosato Cartabellotta – nonostante gli aumenti nominali, la sanità ha perso in quattro anni l’equivalente della prossima legge di bilancio» (figura 3).

«Questo trend – ha osservato Cartabellotta – riflette il continuo disinvestimento dalla sanità pubblica, avviato nel 2010 e perpetrato da tutti i Governi. L’aumento del FSN in valore assoluto, spesso sbandierato come un grande traguardo, non è che un’illusione contabile: la quota di PIL destinata alla sanità cala infatti inesorabilmente, fatta eccezione per gli anni della pandemia quando i finanziamenti straordinari per la gestione dell’emergenza e il calo del PIL nel 2020 hanno mascherato il problema. E con la Manovra 2026 si scende addirittura sotto la soglia del 6%, toccando nel 2028 il minimo storico del 5,93%» (figura 4).

FSN VS PREVISIONI DI SPESA. Aumenta il divario tra l’entità del FSN e le previsioni di spesa sanitaria indicate nel Documento Programmatico di Finanza Pubblica: 6,4% del PIL nel 2025, 6,5% nel 2026 e nuovamente 6,4% nel 2027 e nel 2028. In valore assoluto, il gap tra spesa attesa e risorse assegnate è di € 6,8 miliardi nel 2026, € 7,6 miliardi nel 2027 e € 10,7 miliardi nel 2028. «Un differenziale – ha osservato Cartabellotta – che non può essere colmato dalle risorse proprie delle Regioni, che saranno costrette a ridurre i servizi o ad aumentare le imposte locali. In questo modo lo Stato viene meno alla propria competenza esclusiva di garantire i Livelli Essenziali di Assistenza, continuando a ignorare i più recenti orientamenti della Corte Costituzionale sulla tutela della salute: dal principio del “diritto finanziariamente condizionato” alla “spesa costituzionalmente necessaria”».
MISURE PREVISTE. L’analisi delle misure contenute nell’art. 63 evidenzia inoltre un’anomalia: oltre € 430 milioni destinati a finanziare interventi del 2026 attingono a risorse già stanziate con la Legge di Bilancio 2025 per obiettivi di interesse nazionale (tabella 2). «È insolito – commenta Cartabellotta – che una quota così rilevante delle risorse per assunzioni e prestazioni aggiuntive derivi da fondi già impegnati: un segnale che il rilancio delle politiche del personale resta, di fatto, sulla carta. Più in generale, la frammentazione di misure e investimenti sembra pensata per non scontentare nessuno, senza una visione strategica di rilancio del SSN» (tabella 3).


PROPOSTE PER IL RIFINANZIAMENTO DEL SSN. «Se vogliamo davvero rilanciare il SSN – ha continuato il Presidente – è indispensabile avviare un rifinanziamento progressivo accompagnato da coraggiose riforme strutturali di sistema. Perché aggiungere fondi senza riforme riduce il valore della spesa sanitaria, mentre varare riforme senza maggiori oneri per la finanza pubblica crea solo “scatole vuote”, così come è accaduto per il Decreto anziani e soprattutto per il Decreto Liste di attesa. Nonostante la stagnante crescita economica, gli enormi interessi sul debito pubblico e l’entità dell’evasione fiscale, se c’è la volontà politica è possibile pianificare con approccio scientifico un incremento percentuale annuo del FSN, al di sotto del quale non scendere, a prescindere dagli avvicendamenti dei Governi».
In linea con le indicazioni politiche suggerite dal report OCSE sulla sostenibilità fiscale dei servizi sanitari, la Fondazione GIMBE ha presentato in audizione proposte concrete per rifinanziare il SSN.
- Tassa di scopo su prodotti nocivi alla salute (sin taxes: tabacco, alcol, gioco, bevande zuccherate), oltre a imposte su extraprofitti e redditi molto elevati.
- Rivalutazione dei confini tra spesa pubblica e privata: revisione del perimetro LEA accompagnata da una “sana” riforma della sanità integrativa per aumentare la spesa intermediata su prestazioni extra-LEA e da una revisione mirata delle compartecipazioni alla spesa sanitaria (ticket).
- Piano nazionale di disinvestimento da sprechi e inefficienze, con riallocazione di risorse su servizi e prestazioni sotto-utilizzate.
«Il tempo di rimboccarsi le maniche è quasi scaduto – ha concluso Cartabellotta – e bisogna agire abbandonando sia i proclami populisti del Governo sia le proposte irrealistiche di rifinanziamento delle opposizioni. È indispensabile ripensare le politiche allocative del Paese per contrastare la progressiva demotivazione e fuga del personale sanitario dal SSN, le difficoltà di accesso alle innovazioni farmacologiche e tecnologiche, le diseguaglianze nell’accesso a servizi e prestazioni sanitarie, l’aumento della spesa privata e la rinuncia alle cure. La realtà è che oggi alla sanità pubblica non viene destinato quello che serve, ma solo ciò che avanza. Senza un vero potenziamento del SSN sostenuto da adeguate risorse e da coraggiose riforme strutturali, non resterà che assistere impotenti al suo declino: oggi la crisi del SSN non intacca solo l’inalienabile diritto costituzionale alla tutela della salute, ma mina la coesione sociale e la tenuta democratica del Paese. Perché se la sanità pubblica arretra, l’Italia intera rischia di affondare».
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Pagina aggiornata il 22/06/2022




