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20 maggio 2025
Screening oncologici organizzati: nel 2023 non individuati oltre 50 mila tumori e lesioni pre-cancerose per scarsa adesione dei cittadini. 1 persona su 2 non fa gli screening per mammella e cervice, 2 su 3 quello per colon-retto. Disuguaglianze regionali inaccettabili, Mezzogiorno in grave ritardo

Nel 2023, milioni di cittadini non hanno ricevuto o, molto più spesso, hanno ignorato l’invito a sottoporsi a uno screening oncologico gratuito, soprattutto nelle Regioni del Mezzogiorno. «Adesioni ancora troppo basse e profonde diseguaglianze territoriali – dichiara Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – mettono a rischio lo strumento più efficace per la diagnosi precoce dei tumori. Il risultato? Oltre 50 mila diagnosi mancate, tra tumori e lesioni pre-cancerose».

Gli screening oncologici inclusi nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), che tutte le Regioni sono tenute a offrire gratuitamente, prevedono: la mammografia per le donne tra i 50 ed i 69 anni, lo screening del tumore della cervice uterina per le donne tra i 25 ed i 64 anni e quello colon-rettale per donne e uomini tra i 50 ed i 69 anni. In alcune Regioni non sottoposte a Piano di rientro, grazie a fondi extra-LEA, le fasce di età sono state ampliate: lo screening mammografico viene esteso anche alle donne tra i 45 e i 49 anni e tra i 70 e i 74 anni e quello colon-rettale alla fascia di età 70-74. «Complessivamente – afferma Cartabellotta – nel 2023 quasi 16 milioni di persone (15.946.091) sono state invitate ad eseguire un test di screening, ma solo 6,9 milioni (6.915.968) hanno aderito, con marcate differenze di adesione sia fra i tre programmi sia, soprattutto, tra Regioni e macro-aree del Paese».

Grazie ai dati del Report 2023 dell’Osservatorio Nazionale Screening (ONS) – network che monitora gli screening oncologici offerti dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN) – la Fondazione GIMBE ha analizzato punti di forza e criticità dei tre programmi di screening «con il duplice obiettivo – spiega il Presidente – di sensibilizzare i cittadini sull’importanza di aderire agli screening organizzati e sollecitare Regioni e Aziende Sanitarie Locali a concentrare sforzi organizzativi e comunicazione pubblica su questo pilastro fondamentale della prevenzione oncologica».

Il report dell’ONS riporta numerosi indicatori utili a valutare la qualità del processo di erogazione degli screening, che presenta un’elevata variabilità tra Regioni in termini di modalità di invito, strategie di recupero e, soprattutto, coperture della popolazione target. Per comprendere le dinamiche dei programmi di screening organizzato, tre sono gli indicatori fondamentali da tenere in considerazione:

  • Popolazione target da invitare. Per ciascuno dei tre screening la popolazione residente ISTAT al 1° gennaio 2023 delle fasce di età di riferimento viene divisa per la periodicità del test: 2 anni per lo screening mammografico e colon-rettale e 3 anni per quello cervicale.
  • Estensione dello screening. Misura il numero di inviti effettivamente spediti, al netto di quelli non recapitati, rapportati alla popolazione target. Non vengono conteggiati gli esclusi prima dell’invio per ragioni cliniche: persone che si sono già sottoposte al test di screening o a quello di secondo livello, pazienti con diagnosi oncologica. L’estensione può superare il 100% quando le Regioni effettuano inviti aggiuntivi per recuperare screening non effettuati in passato a causa dalla pandemia, del mancato recapito dell’invito o della mancata adesione.
  • Adesione allo screening. È la percentuale di persone che si sottopongono al test di screening in rapporto alla popolazione target, al netto degli esclusi prima dell’invio per ragioni cliniche. Questo indicatore è incluso tra quelli del Nuovo Sistema di Garanzia, strumento con cui il Ministero della Salute monitora l’erogazione dei LEA erogati dalle Regioni.

«In altri termini – spiega il Presidente – tra esclusioni cliniche, inviti non recapitati e recuperi di screening non effettuati negli anni precedenti, il numero effettivo di persone invitate può variare sensibilmente rispetto alla popolazione target teorica».

SCREENING MAMMOGRAFICO. Viene offerto a tutte le donne di età compresa tra i 50 ed i 69 anni. In caso di esito positivo, viene avviato un percorso di approfondimento diagnostico con altri test di imaging (ecografia, TAC, risonanza magnetica), esame citologico o biopsia.

Estensione dello screening. Nel 2023 in Italia è stato invitato il 93,6% (n. 4.017.757) della popolazione target, con marcate differenze regionali: si va dal 119,5% del Molise al 49,4% della Calabria (Figura 1). «Tutte le Regioni del Mezzogiorno ad eccezione del Molise – commenta Cartabellotta – si collocano sotto la soglia del 100%, a dimostrazione che in queste Regioni la bassa adesione agli screening è spesso legata a carenze organizzative nella gestione degli inviti».

Adesione allo screening. La media nazionale di adesione allo screening mammografico è del 49,3%, ma anche in questo caso le differenze tra Regioni sono marcate: si passa dall’82,5% della Provincia autonoma di Trento all’8,1% della Calabria (Figura 2). Tutte le Regioni del Sud hanno livelli di adesione inferiori alla media nazionale.

SCREENING CERVICALE. Lo screening per il tumore del collo dell’utero è offerto a tutte le donne di età compresa tra i 25 ed i 64 anni: in particolare, tra i 25-30/35 anni viene offerto il Pap-test ogni 3 anni, mentre per le età successive il test per il virus del papilloma umano (HPV test) ogni 5 anni. Alcune Regioni hanno adottato protocolli personalizzati sulla base dello status vaccinale per l’HPV. In caso di esito positivo, viene proposta come test di secondo livello la colposcopia, eseguita nel 2023 dal 90% delle donne risultate positive allo screening.

Estensione dello screening. Nel 2023 sono state invitate 3.982.378 donne, di cui il 71,3% (n. 2.838.955) con test HPV e il 28,7% (n. 1.143.423) con Pap-test. Complessivamente, è stato invitato il 111% della popolazione target, con forti differenze tra Regioni: dal 162,9% della Puglia al 61,5% della Calabria (Figura 3). «Le percentuali superiori al 100% – spiega Cartabellotta – registrate in ben 12 Regioni, lasciano presumere un numero molto elevato di recuperi degli inviti non effettuati negli anni segnati dalla pandemia».

Adesione allo screening. La media nazionale di adesione allo screening cervicale è del 46,9%, con forti disparità tra le Regioni: dal 78% della Provincia autonoma di Trento al 17% della Calabria (Figura 4).

SCREENING COLON-RETTALE. Lo screening per il tumore del colon-retto viene offerto a tutte le persone di età compresa tra i 50 ed i 69 anni e consiste nella ricerca del sangue occulto nelle feci. In caso di esito positivo, come test di secondo livello viene proposta la colonscopia, eseguita nel 2023 da quasi l’83% delle persone positive allo screening.

Estensione dello screening. Nel 2023 è stato invitato il 94,3% (n. 7.945.956) della popolazione target, con marcate differenze regionali: dal 118,6% dell’Emilia-Romagna al 55,9% della Sardegna (Figura 5).

Adesione allo screening. La media nazionale è del 32,5%, con un’adesione che varia sensibilmente tra le Regioni: dal 62% del Veneto al 4,4% della Calabria (Figura 6). Tutte le Regioni del Mezzogiorno, ad eccezione della Basilicata, si collocano al di sotto della media nazionale.

«Il tasso di adesione agli screening – spiega Cartabellotta – è un indicatore che sintetizza le performance complessive dei servizi sanitari regionali sugli screening organizzati. Riflette la capacità di mantenere aggiornati i dati anagrafici della popolazione target, programmare e spedire gli inviti, promuovere campagne di sensibilizzazione pubblica e garantire l’erogazione dei test di screening». In generale, il posizionamento di ciascuna Regione rispetto all’adesione risulta abbastanza omogenea o coerente fra i tre screening, riflettendo la maggiore o minore capacità organizzativa dei sistemi sanitari regionali, pur con alcune eccezioni (Tabella 1).

«Se da un lato i dati ONS 2023 – aggiunge il Presidente – mostrano il trend in crescita sia degli inviti che della copertura della popolazione, siamo ancora molto lontani dall’obiettivo fissato nel 2022 dal Consiglio Europeo: garantire entro il 2025 una copertura degli screening oncologici ad almeno il 90% della popolazione target».

 

L’IMPATTO DELLA MANCATA ADESIONE AGLI SCREENING

Tenendo conto della popolazione target non invitata o che non aderisce agli screening e del tasso di identificazione dei tumori (detection rate), è possibile stimare il numero di tumori e lesioni pre-cancerose potenzialmente identificabili dagli screening oncologici organizzati, fissando il target di copertura al 90%.

«Nel 2023 – spiega il Presidente – la mancata adesione ai programmi di screening organizzati non avrebbe consentito di identificare circa 10.900 carcinomi della mammella, di cui quasi 2.400 invasivi di piccole dimensioni; di quasi 10.300 lesioni pre-cancerose del collo dell’utero; e per il colon-retto di oltre 5.200 tumori e quasi 24.700 adenomi avanzati. Complessivamente si tratta di oltre 50 mila lesioni la cui identificazione avrebbe consentito di avviare il percorso per una diagnosi precoce e, ove necessario, per una terapia efficace». In dettaglio:

Tumori della mammella. Tenendo conto di un tasso di identificazione dello 0,5% per tutti i carcinomi e dello 0,14% per quelli invasivi di dimensioni ≤10 mm e di una popolazione stimata di 2.118.870 donne che non si è sottoposta allo screening, si stima che nel 2023 non siano stati identificati 10.884 tumori, di cui 2.381 carcinomi invasivi di dimensioni ≤10 mm.                           

Tumori della cervice uterina. Sulla base di un tasso di identificazione di lesioni pre-cancerose (istologia CIN2+) pari allo 0,76% per l’HPV test e allo 0,64% per il Pap-test, e considerando che potenzialmente 1.156.447 donne non hanno ricevuto o aderito all’invito per l’HPV test e 604.304 a quello per il Pap-test, si stima che nel 2023 complessivamente siano sfuggite alla diagnosi 10.273 lesioni con istologia CIN2+.  

Tumori del colon-retto. Con un tasso di identificazione dello 0,11% per il carcinoma del colon-retto e dello 0,52% per gli adenomi avanzati, e potenzialmente 5.574.231 persone non hanno aderito allo screening, si stima che nel 2023 non siano stati identificati 5.223 carcinomi e 24.692 adenomi avanzati.                        

«È vero – spiega Cartabellotta – che molte persone dichiarano di sottoporsi a controlli periodici per “iniziativa spontanea”, come rileva l’indagine campionaria del sistema di sorveglianza PASSI dell’Istituto Superiore di Sanità. Tuttavia, per questi esami non esistono dati oggettivi (es. tasso di identificazione dei tumori o percentuale di positivi che si sottopongono al test di secondo livello), né controlli standardizzati sulla qualità dei test. E non vi è alcuna certezza che, in caso di esito positivo, venga attivato un adeguato percorso diagnostico e terapeutico. A questo si aggiungono tutti i limiti che presenta un’indagine campionaria che, pur fornendo numerose informazioni rilevanti su fattori di rischio e determinanti socio-economiche, non certifica la copertura degli screening oncologici per “iniziativa spontanea”».

«Prevenzione e promozione della salute – conclude Cartabellotta – rappresentano i pilastri per ridurre l’incidenza delle malattie e contribuire alla sostenibilità del SSN. Ma oggi il paradosso è evidente: da un lato i cittadini sono in lista di attesa per esami diagnostici non sempre appropriati, dall’altro sono in milioni a non aderire ai programmi di screening organizzati. È evidente che sul fronte degli inviti molte Regioni, in particolare del Sud, devono migliorare le proprie capacità organizzative. Ma, la principale criticità rimane la scarsa adesione agli screening: servono maggiori informazioni, strategie di comunicazione efficaci e coinvolgimento attivo dei cittadini. Perché aderire agli screening organizzati significa diagnosi precoce, trattamento tempestivo delle lesioni pre-cancerose, un numero maggiore di guarigioni definitive, meno sofferenze per i pazienti, costi minori per il SSN e, soprattutto, meno decessi per tumore».


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6 maggio 2025
PNRR Missione Salute: al 1° trimestre 2025 rispettata l’unica scadenza nazionale, ma la riforma dell’assistenza territoriale arranca. Case della comunità: solo il 2,7% pienamente operative. Ospedali di comunità: nessuno con tutti i servizi attivi. Fascicolo Sanitario Elettronico: nessuna regione al 100%

«Al 31 marzo 2025 – dichiara Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – per la Missione Salute del PNRR non era prevista alcuna scadenza europea e l’unica scadenza nazionale è stata rispettata. Tuttavia, al di là del rispetto delle scadenze formali, a poco più di un anno dalla rendicontazione finale, la riforma dell’assistenza territoriale e l’attuazione del Fascicolo Sanitario Elettronico procedono decisamente a rilento, con marcate diseguaglianze tra le Regioni».

L’Osservatorio GIMBE sul Servizio Sanitario Nazionale (SSN) prosegue il monitoraggio indipendente sull’attuazione della Missione Salute del PNRR, analizzando i risultati raggiunti e le criticità che ostacolano la riforma dell’assistenza territoriale, con l’obiettivo di fornire ai cittadini un quadro oggettivo, al riparo da strumentalizzazioni politiche.

STATO DI AVANZAMENTO AL 31 MARZO 2025. Secondo i dati pubblicati sul portale del Ministero della Salute che monitora l’attuazione della Missione Salute del PNRR:

Milestone e target EU: al 31 marzo 2025 non era prevista alcuna scadenza.

Milestone e target nazionali: «Anche se non incidono direttamente sull’erogazione dei fondi del PNRR – spiega Cartabellotta – questi step intermedi vanno monitorati con attenzione, perché ritardi accumulati oggi potrebbero compromettere il rispetto delle scadenze europee di domani». Per il periodo 2021-2025 risultano raggiunti tutti i target previsti: in particolare, al 31 marzo è stato raggiunto il target “Nuovi pazienti che ricevono assistenza domiciliare (terza parte)”, che prevede un ulteriore incremento dei pazienti over 65 da trattare in assistenza domiciliare, al fine di raggiungere la soglia della presa in carico del 10% della popolazione in quella fascia di età. «Tuttavia – osserva il Presidente – persistono grandi disparità regionali, sia nel numero di assistiti a domicilio, sia nella tipologia di servizi offerti». Infatti, come documentato dal Report Agenas sul monitoraggio del DM 77 – aggiornato a dicembre 2024 – solo Molise, Provincia Autonoma di Trento, Umbria e Valle D’Aosta garantiscono in tutti i distretti sanitari gli 8 servizi previsti (Figura 1): nelle altre Regioni le principali carenze riguardano l’assistenza del medico e del pediatra di famiglia, l’assistenza specialistica, i servizi socio-assistenziali e la fornitura di farmaci e dispositivi.

RIFORMA DELL’ASSISTENZA TERRITORIALE. A tre anni dall’adozione del DM 77, la riforma dell’assistenza territoriale procede a rilento, con forti diseguaglianze tra le Regioni, in particolare nell’attivazione e nella piena operatività delle Case della Comunità e degli Ospedali di Comunità. Lo confermano i dati elaborati dalla Fondazione GIMBE a partire dal Report Agenas sul monitoraggio del DM 77, aggiornati al 20 dicembre 2024. «Il potenziamento dell’assistenza territoriale – afferma Cartabellotta – è la chiave per decongestionare ospedali e pronto soccorso e garantire una reale sanità di prossimità. Tuttavia, i dati ufficiali trasmessi dalle Regioni dimostrano che nonostante i fondi già stanziati, il ritmo resta inaccettabilmente lento».

Case della Comunità (CdC). Al 20 dicembre 2024, su 1.717 CdC previste, per 1.068 (62,2%) le Regioni non hanno dichiarato attivo alcun servizio tra quelli previsti dal DM 77; per 485 strutture (28,2%) è stato dichiarato attivo almeno un servizio e solo per 164 (9,6%) tutti i servizi obbligatori sono stati dichiarati attivi. Di queste ultime, tuttavia, soltanto 46 (2,7% del totale) risultavano pienamente operative, cioè con presenza sia medica che infermieristica (Figura 2). «Tenendo conto – precisa Cartabellotta – che tra le Case della Comunità senza servizi attivi rientrano anche quelle non ancora realizzate o in fase di riconversione, resta evidente il forte ritardo accumulato sulla tabella di marcia e, soprattutto, la distanza abissale tra le Regioni» (Tabella 1).

Solo quattro Regioni superano il 50% di CdC con almeno un servizio dichiarato attivo: Emilia-Romagna (70,6%), Lombardia (66,7%), Veneto (62,6%) e Marche (55,2%). Sei Regioni si collocano tra il 25% e il 50%: Molise (38,5%), Liguria (33,3%), Piemonte (29,5%), Umbria (27,3%), Toscana (26,9%), Lazio (26,5%). In altre cinque Regioni la percentuale varia dallo 0,8% della Puglia al 5% della Sardegna, mentre in sei Regioni non risulta attiva alcuna CdC (Figura 3). Considerando solo le CdC con tutti i servizi dichiarati attivi, la media nazionale si attesta al 6,9% per quelle prive di personale medico e infermieristico e al 2,7% per quelle pienamente funzionanti. Le differenze tra Regioni dipendono non solo dal completamento delle strutture, ma soprattutto dalla disponibilità di personale. In tutte le Regioni, fatta eccezione per il Molise, la quota di CdC pienamente operative è sempre inferiore rispetto a quelle che hanno attivato tutti i servizi (Figura 4).

Ospedali di comunità (OdC). Al 20 dicembre 2024, dei 568 Ospedali di Comunità previsti, solo 124 (21,8%) risultano avere almeno un servizio attivo (Tabella 2), per un totale di quasi 2.100 posti letto. In termini assoluti, i numeri più alti si registrano in Veneto (n. 43), Lombardia (n. 25) ed Emilia-Romagna (n. 21). Altre dieci Regioni hanno attivato almeno un OdC: dagli 8 della Puglia a un solo OdC in Campania e Sardegna. Otto Regioni restano invece ancora a quota zero. A fronte di una media nazionale del 22%, le percentuali regionali variano in modo significativo: il Molise, con soli 2 OdC da realizzare, raggiunge il 100%; all’estremo opposto, otto Regioni non hanno attivato alcun OdC, mentre le altre si distribuiscono tra il 2% della Campania e il 61% del Veneto (Figura 5). «Rispetto alle Case della Comunità – commenta Cartabellotta – lo stato di attuazione degli Ospedali di Comunità appare ancora più indietro: non solo sul piano strutturale, ma anche perché nessuna Regione ha attivato tutti i servizi previsti dal DM 77». Infatti, per essere pienamente operativi, gli OdC devono garantire presenza medica per almeno 4,5 ore al giorno sei giorni su sette, assistenza infermieristica continuativa (H24 7/7 giorni), la figura del case manager, posti letto per pazienti con demenza o disturbi comportamentali e spazi dedicati alla riabilitazione motoria.

Centrali Operative Territoriali (COT). Le COT, strutture essenziali per coordinare la presa in carico dei pazienti e integrare l’assistenza sanitaria e sociosanitaria, risultano attivate in tutte le Regioni. Al 31 dicembre 2024, su 650 COT programmate, 642 risultavano pienamente funzionanti, di cui 480 hanno contribuito al raggiungimento del target europeo.

«Rispetto alla fotografia scattata da Agenas cinque mesi fa – commenta il Presidente – è verosimile ipotizzare che il quadro attuale sia più incoraggiante. Tuttavia, l’attuazione di CdC e OdC procede ancora con una lentezza inaccettabile e a velocità troppo diverse tra le Regioni. E a poco più di un anno dalla scadenza finale del giugno 2026, alcune sono ancora inchiodate al punto di partenza».

FASCICOLO SANITARIO ELETTRONICO (FSE). Il FSE 2.0 rappresenta il pilastro della trasformazione digitale del SSN: un investimento da € 1,38 miliardi che punta a creare un ecosistema digitale in grado di garantire accesso, condivisione e interoperabilità dei dati sanitari su tutto il territorio nazionale. Tuttavia, secondo la Corte dei Conti, il cronoprogramma ha già subìto ritardi: la milestone sulla piena interoperabilità nazionale, inizialmente prevista per giugno 2024, è stata posticipata a dicembre 2024, mentre la digitalizzazione nativa dei documenti è attesa per giugno 2025. «Senza la piena operatività del FSE su tutto il territorio nazionale e senza il consenso dei cittadini alla consultazione dei documenti – avverte Cartabellotta –  rischiamo di centrare i target solo sulla carta per incassare i fondi, ma di lasciare la digitalizzazione del SSN incompiuta, frammentata e inefficace».

Completezza del FSE. Al 30 novembre 2024, secondo i dati elaborati dal portale Fascicolo Sanitario Elettronico 2.0, nessuna Regione rende disponibili tutte le 16 tipologie di documenti previste dal DM 7 settembre 2023. Il grado di completezza varia sensibilmente tra le Regioni: si va dal 94% di Lazio, Piemonte e Sardegna al 63% di Marche e Puglia (Figura 6).

Consenso alla consultazione. Al 30 novembre 2024 (al 31 ottobre 2024 per le Marche), solo il 42% dei cittadini ha espresso il consenso alla consultazione del FSE da parte di medici e operatori del SSN, con forti disomogeneità regionali: dall’1% in Abruzzo, Calabria, Campania e Molise all’89% in Emilia-Romagna. Tra le Regioni del Mezzogiorno, solo la Puglia supera la media nazionale (42%) con un tasso di adesione del 71% (Figura 7). «La scarsa adesione da parte dei cittadini – spiega il Presidente – soprattutto nelle Regioni del Mezzogiorno, è un segnale preoccupante di sfiducia nella sicurezza dei dati personali e nella reale utilità del FSE».

«A poco più di un anno dalla rendicontazione finale della Missione Salute del PNRR – conclude Cartabellotta – l’avanzamento di Case e Ospedali di Comunità procede ancora troppo lentamente e con velocità profondamente diverse tra le Regioni. Ma il problema principale è che, oltre ai ritardi infrastrutturali, il “pieno funzionamento” delle strutture – requisito indispensabile per la rendicontazione finale – è pesantemente ostacolato dalla carenza di personale sanitario, in particolare infermieristico, una vera emergenza nazionale. Nel caso delle Case della Comunità pesa poi anche l’assenza di un reale coinvolgimento dei medici di famiglia, perno insostituibile dell’assistenza territoriale. È dunque indispensabile accelerare in maniera sinergica su più fronti, per scongiurare rischi concreti. Il primo, da evitare ad ogni costo, è quello di non raggiungere i target europei e dover restituire il contributo a fondo perduto. Il secondo è di raggiungere il target nazionale, senza però ridurre le diseguaglianze regionali e territoriali, che rischiano anzi di ampliarsi. Il terzo, il più grave, è “portare i soldi a casa” senza produrre benefici reali per cittadini e pazienti, lasciando in eredità solo scatole vuote e una digitalizzazione incompleta, a fronte di un indebitamento scaricato sulle generazioni future».


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16 aprile 2025
Spesa Sanitaria: il Documento di Finanza Pubblica 2025 prevede timidi segnali di crescita, ma il rapporto con il Pil resta inchiodato al 6,4% sino al 2028. Il SSN rimane largamente sottofinanziato

«Si intravede una lieve crescita della spesa sanitaria, ma si tratta di stime previsionali che non modificano la sostanza: la quota di ricchezza nazionale destinata alla sanità, già insufficiente, resta invariata nei prossimi anni, confermando il cronico sottofinanziamento del Servizio Sanitario Nazionale». Così Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE, commenta i dati sulla spesa sanitaria contenuti nel Documento di Finanza Pubblica (DFP) approvato lo scorso 9 aprile dal Consiglio dei Ministri e incentrato sulla verifica dei risultati conseguiti nell’attuazione del Piano Strutturale di Bilancio di Medio Termine (PSBMT) 2025-2029, deliberato lo scorso 27 settembre.

«Al fine di offrire dati oggettivi utili al confronto politico e al dibattito pubblico, evitando ogni strumentalizzazione – spiega Cartabellotta – la Fondazione GIMBE ha condotto analisi indipendenti sulla spesa sanitaria sul DFP 2025, includendo anche un confronto con le stime contenute nel PSBMT». Le analisi riguardano il consuntivo 2024, le previsioni per il 2025 e per il biennio 2026-2027. Per il 2028, pur rientrando nel triennio di riferimento della prossima Legge di Bilancio (2026-2028), il DFP si limita a fornire indicazioni descrittive, senza riportare le stime di dettaglio nelle tabelle analitiche (Tabella 1).

Stime PIL reale. Secondo quanto riportato nel DFP, l’aumento consuntivo del PIL per il 2024 è inferiore di 0,3 punti percentuali rispetto alle previsioni del PSBMT (0,7% vs 1,0%). Per il 2025, la stima di crescita del PIL si dimezza: il DFP prevede un +0,6%, a fronte dell’1,2% previsto dal PSBMT (-0,6 punti percentuali). Per il 2026, il DFP stima un incremento dello 0,8%, inferiore di 0,3 punti percentuali rispetto all’1,1% del PSBMT. Per il 2027, invece, le due previsioni risultano allineate (+0,8%) (Tabella 2). «Le stime del PIL in termini reali – commenta il Presidente – restituiscono prospettive di crescita economica riviste nettamente al ribasso a soli sette mesi di distanza e, soprattutto, gravate da forti incertezze legate al piano di riarmo europeo e alle politiche sui dazi degli Stati Uniti».

SPESA SANITARIA. Di seguito sono riportati i dati consuntivi per il 2024 e le stime per l’anno 2025 e il triennio 2026-2028 (Tabella 3).

Consuntivo 2024. Il DFP 2025 certifica, per l’anno 2024, un rapporto spesa sanitaria/PIL pari al 6,3%, in lieve aumento rispetto al 2023 (+0,1 punti percentuali). La spesa sanitaria ammonta a € 138.335 milioni, con una crescita del 4,9% rispetto ai € 131.842 milioni del 2023.  «Tuttavia – osserva Cartabellotta – l’incremento di € 6.493 milioni tra il 2023 e il 2024 è dovuto per oltre la metà (€ 3.257 milioni) alla spesa per il personale dipendente. Un aumento in gran parte riconducibile agli oneri accantonati per i rinnovi contrattuali del personale sanitario relativi al triennio 2022-2024».

Previsionale 2025 e 2026-2028. Nel 2025, il rapporto spesa sanitaria/PIL è stimato al 6,4%, in lieve aumento rispetto al 6,3% del 2024. In termini assoluti, la spesa sanitaria prevista ammonta a € 143.372 milioni, con un incremento di € 5.037 milioni (+3,6%) rispetto all’anno precedente. Per il biennio 2026-2027, a fronte di una crescita media annua del PIL nominale del 2,75%, il DFP 2025 prevede un incremento medio della spesa sanitaria del 2,85% l’anno, mantenendo invariato il rapporto spesa sanitaria/PIL al 6,4%. In valore assoluto, la spesa sanitaria sale a € 149.820 milioni nel 2026 (+4,5% rispetto al 2025) e a € 151.635 milioni nel 2027 (+1,2% rispetto al 2026). Per il 2028, il DFP stima un ulteriore incremento della spesa del 2,6% rispetto al 2027, con il rapporto spesa sanitaria/PIL ancora fermo al 6,4%.

«Se da un lato le previsioni per il triennio 2025-2028 indicano un rapporto spesa sanitaria/PIL sostanzialmente stabile – commenta il Presidente – dall’altro non si possono escludere riduzioni effettive della spesa sanitaria, alla luce della stagnazione economica e delle incertezze legate al contesto macroeconomico globale. In quest’ottica appaiono azzardate le stime di un aumento della spesa di € 5.037 milioni nel 2025 e di ulteriori € 6.448 milioni nel 2026, considerando che il Fabbisogno Sanitario Nazionale fissato dalla Legge di Bilancio 2025 è pari a € 136.533 milioni per il 2025 e € 140.533 milioni per il 2026».

Differenza tra le stime del DFP e quelle del PSBMT. Rispetto alle previsioni del PSBMT approvato a settembre, le stime sulla spesa sanitaria contenute nel DFP 2025 risultano superiori sia in termini di rapporto spesa sanitaria/PIL, sia in valore assoluto. «Un dato che – commenta Cartabellotta – rappresenta un timido segnale di apertura da parte dell’Esecutivo per scongiurare ulteriori tagli alla sanità, alla luce del peggioramento del quadro economico generale».

Riforme. A completamento della prossima Legge di Bilancio, il DFP 2025 indica 32 provvedimenti collegati, tra cui due direttamente riferiti alla sanità: la “Riorganizzazione e potenziamento dell’assistenza territoriale nel Servizio Sanitario Nazionale e dell’assistenza ospedaliera” e la “Delega in materia di riordino delle professioni sanitarie e degli enti vigilati dal Ministero della Salute”. «Indubbiamente – chiosa il Presidente – le riforme affrontano i nodi strutturali più critici, ma la riorganizzazione dell’assistenza territoriale è fortemente condizionata dalla gravissima carenza di personale infermieristico e da un ruolo del medico di famiglia ancora non ben definito. Inoltre, al di là del “riordino” delle professioni sanitarie, la vera emergenza resta la fuga dei professionisti dal SSN: per restituire attrattività servono anche (ma non solo) risorse consistenti, che attualmente non sono disponibili».

«Il DFP 2025 – conclude il Presidente – conferma che, in linea con quanto accaduto negli ultimi 15 anni, la sanità pubblica continua a non rappresentare una priorità per il Paese, nonostante la grave crisi di sostenibilità del SSN e il progressivo sgretolamento del diritto alla tutela della salute. Alla luce delle stime al ribasso del PIL e del quadro macroeconomico, va riconosciuto all’Esecutivo il merito di aver scongiurato ulteriori e drammatici tagli alla spesa sanitaria. Tuttavia, nonostante l’incremento previsto in valore assoluto, il peso della sanità sul PIL resta inchiodato al 6,4% fino al 2028, lasciando il SSN largamente sottofinanziato».


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